Storielle e filastrocche....dedicate a Tatonno 'e Galiota

In questa pagina voglio riportare tutte quelle storielle, filastrocche e proverbi vari che mi sono arrivati per "tradizione orale".
La fonte di quasi tutte queste "tradizioni" è Tatonno 'e Galiota (al secolo Antonio Giustezza), scomparso parecchi anni fa, voce della tradizione contadina tavernanovese, a cui è dedicata questa pagina.
Ovviamente, alcune cose di quanto riportato in questa pagina sono anche presenti nelle tradizioni di altre zone campane, ma questo non vuol dire nulla: esse sono state copiate ed adattate sempre tenendo presente la cultura di chi le riceveva e che a sua volta, le modificava.
Ricordate che un tempo solo pochi sapevano leggere e/o scrivere...!

NOTA: Attenzione, che alcune filastrocche contengono termini volgari nel senso letterale del termine, ovvero termini provenienti dal volgo e non sono da intendere offensivi.

Ciente niente accerettene a nu ciucce: ovvero, " 'O fattore teneva nu ciucce ca nun teneve 'ggenie 'e fatica.

"Stu ciucce ogni matina me fà surà po caccià 'a dinta 'a stalla" - gridava il contadino, mentre sconsolato usciva dalla stalla, "m'ha proprie sfastriate...". Tutta questa rabbia veniva sempre poi "ripresa" da coloro che, mal vedendo quella povera bestia, ne approfittavano per fargi qualche dispetto.

Chi gli dava un pizzico, chi gli tirava le orecchie, chi qualche calcetto per indurlo a camminare, chi gli tirava la coda...fatto sta che dopo qualche giorno, il fattore mandò il contadino a prendere l'asino, poichè lo aveva venduto.

Il contadino ritornò di corsa dalla stalla e disse:" 'O fattò, 'o ciucce è mmuorte!".

"E come è potuto succedere una cosa del genere? Miche 'nce avita fatte coccosa?"

"Io non gli ho fatto niente, sole nu pizzeche." disse il contadino.

La voce si sparse nella Masseria: ognuno aveva un "niente" da far presente.

"Manche iye nun ce aggia fatte niente, sole na tirata 'e recchie...".

"Iye niente, al massime na tirata 'e cora..".

Ed infine il fattore, appunto:"Nisciune sape niente, ma sti ciente niente accerettene a nu ciucce..".

E la vendita non ebbe luogo. Il fattore addebitò il costo dell'asino ai contadini che non avevano fatto niente.
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Adesso invece è il turno di un canto di lavoro, tipico della zona cosiddetta "Terra di lavoro", che spesso incontriamo nei posts di questo blog. Questo canto è una filastrocca divisa in due parti: la prima è tipicamente una richiesta di lavoro e la seconda è la risposta -ironica- di chi invece vorrebbe qualcos'altro.

Il protagonista stavolta è un cavallo e la filastrocca si riferisce al lavoro dei "vaticali", parliamo del Sei-Settecento, che commerciavano tipicamente ortaggi, trasportandoli su carrette verso fiere e mercati anche in paesi lontani. Uno di questi sicuramente prendeva la via Regia delle Puglie: la versione "tavernanovese" dice così:



Ah cavallo, si ma faje sta sagliuta

t'accatto 'o pettorale e 'a sunagliera.

A me 'a sunagliera nun c'è bisogno.
Iye vulesse nu belle murale chine 'e sciuscelle!

Spettacolare. Ma guardate un poco che dice invece la versione "ufficiale":

Cavallo, si ce `a faje pe' sta sagliuta, 
t'accatto `o pettorale e `a sunagliera.

'A sunagliera a me nun m'abbisogna,
i' voglio `u sacco `e vrenna cu `e ciuscelle.

Salta all'occhio la differenza: a Tavernanova si parla di "murale", una mangiatoia a muro, quindi fissa, mentre la versione ufficiale (di Terra di Lavoro) indica il sacco, quello che viene posto sotto la bocca del cavallo, che così poteva mangiare e lavorare senza praticamente fermarsi...

Quindi il tavernanovese ha adattato alla propria zona, che ha una taverna ed una dogana, una filastrocca che invece prevedeva il pasto per il cavallo in corsa, come i corridori di biciclette...

Ma, grazie ai Zezi -famoso Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco- sappiamo che questa filastrocca è l'inizio di una "cantata" detta "Cilentana": ascoltiamola



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Racconto dello stagnino.

Allo stagnino o stagnaio, parente povero del ramaio, la gente ricorreva per farsi stagnare le pentole di rame. Ma questo artigiano dello stagno e dello zinco costruiva soprattutto oggetti tanto utili quanto indispensabili alla vita quotidiana dei contadini meno abbienti: imbuti di varie dimensioni, grattuge e quant'altro c'era da riparare/rigenerare nelle cucine.

Di buon mattino, questo antico artigiano cominciava il suo giro per i vari villaggi. E come tutti gli ambulanti (anche se aveva una propria "officina") dava "la voce" della sua presenza:


'O stagnine a buon prezzo!

'O cazzo, 'o culo, 'o mutille e

'a rattacase

Era tutto un programma! Lasciava sottintendere che era bravo anche a "stagnare" qualcos'altro.
Una cosa simile la si ritrova in una canzone "da osteria" (ma va...) milanese; non in maniera evidente, ma ci fa capire come, anche in società molto distanti dalla nostra l'idea dello stagnino degradava sempre in quella dell'amante perfetto:

O dònn gh'è chi el magnànò

ch'el gh'ha voeuja de laorà;
se gh'ì quajcòs de fa giustà,
o dònn gh'è chi el magnànò
ch'èl gh'ha voeuja de laorà.

Salta foeura una sposòtta
cont in man 'na pignatta ròtta:
«Se lu la giustarìa da vero galantòm,
sì, sì ghe la darìa de scondon dal me òmm ».

El marì de dedree de l'us'c
che l'aveva sentito tutto
el ven foeura con un tarèll in màn
e pim e pum e pam su la crappa del magnàn.

El magnàn la dervì la pòrta;
el va via con la crappa ròtta;
senza ciamà né dottor né curàt,
el se giusta la crappa al pòst di pignàtt.


E la traduzione in italiano:

O donne, c'è qui la stagnino

che ha voglia di lavorare;
se avete qualcosa da far aggiustare,
o donne c'è qui il magnano
che ha voglia di lavorare.

Esce fuori una "sposotta"
con in mano una pignatta rotta:
« Se lei l'aggiustasse da vero galantuomo,
io gliela darei di nascosto dal mio uomo ». 
Il marito è dietro l'uscio
e aveva sentito tutto

viene fuori con un bastone in mano
e pim e pum e pam sulla testa dello stagnino. 
Lo stagnino apre la porta:
e va via con la testa rotta:
senza chiamare né dottore né curato,
si aggiusta la testa al posto delle pignatte.


La storia che ho ripreso dal buon Antonio ci racconta dunque che:

Dal balcone si affaccia una signora fresca sposa, con una pignata bucata e, rivolgendosi allo stagnaro, gli chiede: "O' stagnì, ma vuje site capace 'e accuncià chesta pignata che è bucata? Si dicite ca sì, saglite 'ncoppe ca ve vulesse fa verè pure na caurale ca pperde!"
E lo stagnino, capita l'antifona, entra nella casa della signora e lì provvede ad aggiustare pignata e "caurale"...ehehehehe.
Ovviamente, finita l'opera di saldatura -diciamo così- continua il suo camminare per il paese alla ricerca di lavoro spiccio.
Quella sera stessa, ritornando da lavoro ed ansioso di andare a letto con la propria moglie, il marito della signora di cui sopra "si accorge" che qualcosa non va e ne chiede conto alla donna.
"Mugliera mia, ma sta caurale da toja ca primma perdeva, mo nun perde cchiù: che è succiese maje?!"
"Eeh caro marito, viste ca passava ppe ccà 'o stagnine, da isse me l'aggia fatta accuncià..."
Così come evidenziato nella canzone milanese, a quei tempi non erano le donne a prendere "le prime mazzate", ma gli uomini. E come in tutte le storielle boccacesche,anche il nostro marito pensa a come rendere pan per focaccia.

"Ma stu stagnine allora nun l'è pavate a denare...e allora mo 'nce vache a dà e' sorde che l'aspettane".
Lo stagnino era ovviamente conosciuto in zona, e si sapeva pure che la moglie era prena da qualche tempo. 
All'indomani il nostro amico allora si vestì con degli abiti nuovi e si recò a casa dello stagnino dove, vista la situazione, si spacciò per un medico.
"Buongiorno, sono venuto a visitare la signora: forse riusciamo a sapere se il nascituro è maschio".
"Prego, accomodateve: 'a puerpera sta dint' o' lietto!" disse una vicina lì presente, non immaginando alcun inganno.
L'uomo entrò e si presentò e, approfittando dello situazione cercò di capire -in un modo molto "particolare" che possiamo immaginare- il sesso del nascituro.
Non vedendo più uscire dalla camera da letto quel "medico", la vicina corse a chiamare il marito:
"Venite maste Giuvannì! E' venute 'o miereche a visità a mugliera vosta ma è passate cchiù 'e mez'ora e nun esce a dinte 'a stanza. Facite ca è succiese cocche cosa?"
I due si diressero verso la stanza e, arrivato fuori la porta, lo stagnino iniziò a gridare:
"Duttooò, tutte a pposte?!"
Ma quel medico non rispondeva visto il troppo "impegno".
"Mugliera mia, ma stu miedeche ha viste si stu figlie è mascule?".
E la moglie: "Sì sì, è mascule, è mascule! E che mascule!!".
Mastro Giovannino attese qualche istante, poi entrò: qualcosa gli pareva strano. Ed infatti... trovò il sedicente medico che si stava vestendo dopo la visita...
Ci mise un pò di tempo per capire, lo stagnino, quello che era successo. Ma la soluzione gliela diede l'ammonimento che gli venne dal marito della donna:
"T'aggia venute a ddà 'e sorde d'a caurale 'e mugliereme d'ajere matine..."
"...e ce l'è date a muglierema?!" - ribattè prontamente l'artigiano.
"...e a chi sinnò: corna 'e fatte e corne 'e avute, stamme pare!" concluse il falso medico, che se ne andò soddisfatto.

Anche in questa storiella sono presenti alcuni elementi della società rurale di qualche secolo fa (e forse anche di quella odierna) ma che volutamente poniamo in secondo piano rispetto alla storiella in se, molto divertente..


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La storia dei monaci del convento "Senza pensieri"

Questa è una storiella di sicura origine ottocentesca, e la possiamo far risalire per l'esattezza al 1809, quando Gioacchino Murat emanò un decreto per la chiusura dei conventi e la conseguente confisca di tutti i loro beni.
Alcuni dei conventi sequestrati venivano, laddove fattibile, convertiti ad uso militare e le loro chiese venivano affidate al clero diocesano.
E' in questo clima dunque, che inizia la nostra storia, raccontatami dal buon Antonio "'o Galiota",
il quale certamente l'aveva sentita da bambino da qualche parente che a sua volta l'aveva sentita...
fino a ritornare a quei tempi, in cui con tali storie si cercava di "esorcizzare" una legge la cui esecuzione
portava sicuramente scompiglio in quei paesi in cui il legame con le comunità monastiche era molto forte.

Dunque le truppe del Re Murat andavano così in giro per conventi al fine di chiuderli e di confiscarne i beni come già detto.
Arrivarono dunque a questo convento, circondato da mura belle alte.

"Ah, questo convento potrebbe servirci come piccola fortezza militare: andiamo a cacciare via i monaci!".

Fu preparato un drappello che si diresse all'ingresso del monastero dove appariva, in bella posta,
una insegna che diceva: "Convento 'Senza pensieri'".
"Auà", disse l'ufficiale,"mò a cchiste 'e penziere nce damme nuje..."
"Arapite! Tenimme l'ordine do 'rre 'e ve jitta a vije 'e fore!" - sentì dalla sua postazione il padre guardiano.

Nel convento intanto, avendo da lontano visto quel movimento di soldati, tutti i monaci si erano adunati nel piazzale;l'abate non sapeva cosa fare: a breve sarebbero stati tutti buttati fuori.

"Adesso questi soldati ci cacceranno via: cosa possiamo fare?!", si chiedevano l'un l'altro.
E l'abate: "In altri conventi non sono riusciti in alcun modo a fermare questo scempio!".

Intanto, il padre guardiano aveva già fatto entrare il drappello di soldati, venuti a dirigere le operazioni di "sfratto".
"Così questo è il convento di senza pensieri?" - chiese ironicamente l'ufficiale.
"Sissignore" rispose il padre guardiano, "si chiama così poichè questo è un luogo di contemplazione."
"Sta bene! Allora qualche pensiero ve lo darò io: se sarete in grado di togliermi questi pensieri, lascerò stare il vostro monastero. Su, chiamatemi l'abate!"

Il monaco allora, intravedendo una possibile ancora di salvezza,corse subito a trovare l'abate, invitandolo a parlare con quel militare.
"Dunque caro abate, oggi è il vostro giorno fortunato! Se riuscirete a togliermi alcuni pensieri, sulla parola lascerò stare il vostro monastero."
"Orsù allora, ditemi in privato quali pensieri avete ed io cercherò di darvi una risposta", rispose premurosamente l'abate, pensando che quei "pensieri" fossero nella coscienza di quell'ufficiale.

Ma non era così: l'ufficiale napoleonico voleva rendere ancor più mortificante la resa di quella comunità e disse: "I miei non sono pensieri di cose spirituali ma sono, diciamo così, curiosità".

"Dunque, vi darò 3 quesiti a cui rispondere e li dovete rispondere a tutti e tre in maniera corretta: solo in questo modo il convento sarà salvo. I quesiti sono 3: uno, quanto è profondo il mare; due: quanto pesa la luna nelle sue fasi e tre mi dovete far vedere come si fa a passare da uno stato all'altro. Avete 3 giorni di tempo per preparare le risposte con le dovute dimostrazioni. Noi aspetteremo fuori nell'accampamento". E si ritirò all'esterno del convento.

L'abate prese nota delle richieste e, piuttosto sconsolato, tornò dai suoi monaci, che riunì nel chiostro per diffondere la notizia.
"Chi di voi è in grado di fornire le risposte e le dimostrazioni? Ne và del nostro convento! Chi di voi abbia qualche idea si faccia avanti.", disse dunque l'abate.

In quel convento si era da poco fermato un pover'uomo in cerca di fortuna e si era offerto di fare da "picuozzo" del convento. I picuozzi erano in pratica dei laici che, per poter rimediare un pasto caldo ed un tetto in testa, spesso se ne andavano nei conventi a fare i lavori più umili e non potevano pertanto ambire a diventare monaci.
Costui si offrì allora all'abate: "Abbà, ije n'idea 'a tenghe, però m'avità dà 'o cunzenze vuoste ca 'e muonace anna stà sotte 'e cumanne mije pe' chisti tre gghiuorne. E pe ricumpenza, 'o juorne stesse ca venene 'e surdate m'avita fà padre gguardiane, tante si va male sarragge sole pe qualche minute!".

Questo picuozzo illustrò il piano all'abate che, vista la situazione, non potè fare altro che promettere tutto.

L'amico picuozzo si dette da fare durante quei tre giorni. Ordinò ai monaci di prendere una bella corda doppia, lunga un chilometro e farne dei nodi ogni 100 metri. Dopodichè diede ordine di bagnarla e di riporla nel piazzale del convento.
Il giorno successivo, diede ordine ai frati di smontare tutte le scale che avevano e di farna una sola
lunghissima, di preparare tre grosse pietre di differente peso e di riporle tutte nei pressi di una vecchia bilancia nel chiostro.
Giunto il terzo giorno, di buon mattino l'abate condusse tutti i monaci nel chiostro e li invitò a raccogliere le
loro cose personali in vista dell'arrivo dei soldati.
Poi chiese al picuozzo: "Ti ho visto molto attivo in questi giorni e ti ho visto preparare due delle tre risposte,
ma non ti ho visto preparare la terza...".
"Nun ve preoccupate, signore abbate: a terza risposta m'a veche sole iye!", fu la risposta del nostro umile amico.
Si presentarono allora i soldati,già belli ed attrezzati per prendere possesso del monastero.
"Chiamatemi l'abbate!", tuonò l'ufficiale.
L'abate si presentò insieme al picuozzo che, per l'occasione, si era appunto vestito da frate.

"Quindi costui dovrà rispondere ai 3 quesiti, immagino...", disse il militare.
"Sissignore.", rispose l'abate.
"Va bene, cominciamo" tagliò corto l'ufficiale.
Tutto il convento si strinse a cerchio intorno alle 3 figure di quella speciale "disputa"; tutti i frati erano in trepidante attesa. La loro sorte era in mano nientedimeno che ad un picuozzo!!

"Prima domanda: quanto è profondo il mare" - chiese allora l'ufficiale.
"'O mare è prufonne nu chilometre: l'avimma misurato aiere e 'a corda è ancora abbagnata. Si nun me crerite, v'a putite piglià e jate a mesurà stesse vuje.." rispose argutamente il picuozzo.

Il militare ci pensò un pò su, poi disse "Va bene, accetto la risposta, ma non credo che alla prossima dimanda avrete la stessa arguzia".
"Quanto pesa la luna quando è un quarto, quando è piena e quando è mezza?" - chiese l'ufficiale.
"La luna quann'è cchiena pesa ciente chile, quanno è meza cinquanta chile e quanne è quarta vinticinche chile:
là sta a scala ca avimma usata p'è saglì e ce sta pure 'a valanza cu 'e pise; si a vulite pesà vuje stesse..."- fu l'arguta risposta.
"Ah! Debbo dire che mi meravigliate. Questa è una risposta che mi piace. Ma sulla terza son certo che cadrete ed il monastero sarà annesso!"- replicò l'ufficiale.
"Jate annanza!"- rispose subito il picuozzo.
"Come si fà per passare da uno stato all'altro..."- disse l'ufficiale risoluto e convinto ormai di averla vinta.
"Embè, con il benestare dell'abate qui presente, fino a mò so' state padre picuozzo ma da oggi stonco padre guardiano...!" fu la risposta condita da un ghignetto dell'ormai ex-picuozzo.

L'ufficiale del Re -seppure a malincuore- non potendo venir meno al patto, accettò la risposta e risparmiò
il convento ove fu molta gioia e paricchie magnate...!

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O Conte 'e Matalune ogni tre ne vuleva una

Si racconta che il conte di Maddaloni soleva applicare la "regola" dello "Ius primae noctis"; tale regola prevedeva che in occasione delle nozze di qualcuno dei suoi servi del popolo, la prima notte della sposa doveva avvenire insieme a lui, altrimenti non avrebbe concesso il nulla-osta al matrimonio (ove mai poi si sarebbe perpetrato...).

Ovviamente, questo tipo di atteggiamento non era ben visto dal popolo, che ne faceva motivo di grande odio e risentimento che talvolta sfociava in rivolte sanguinarie.

Per il conte di Maddaloni valeva il detto popolare "'O conte 'e Matalune ogni tre ne vuleva una", a significare che ogni tre matrimoni lui soleva portarsi a letto una delle fresche spose.

E così accadde che, durante l'anno, vi fu un terzo matrimonio e la nostra coppia di sposi si recò al castello per celebrare il matrimonio. A matrimonio celebrato, il conte minaccia di cacciare fuori dalle sue terre la coppia se non avesse ottemperato a quella famosa regola.I due furono costretti, con altre minacce, a cedere.

Il marito della sposa giurò però eterna vendetta.

Fu ghiotta allora l'occasione che gli si presentò quando si venne a sapere che il conte necessitava di un
giardiniere per una sua villa in campagna, dove abitavano le sue tre sorelle, giovani zitelle, che lui teneva lontano dal paese per paura che, una volta trovatesi marito, il patrimonio familiare venisse diviso.

Determinato e deciso a vendicarsi, il nostro giovane si presenta e viene inviato in campagna a svolgere le
sue mansioni.

Passano i giorni, durante i quali si sentiva sotto il balconato della casa sempre lo stesso ritornello "Evviva 'o conte 'e Matalune ogni tre ne vuleva una", ed il giovane si faceva apprezzare per le sue qualità di giardiniere dagli abitanti di quella casa.

Una mattina, di buon'ora, costui si recò a lavorare nel podere e mentre zappava il terreno si ritrovò davanti un anello di stile signorile, del tipo di quelli che il conte soleva ostentare nelle sue uscite pubbliche. Dunque lo prese e lo mise da parte.

Non passò l'intera giornata che delle urla concitate si sentirono provenire dalle stanza delle sorelle:
"Non trovo più l'anello del conte nostro fratello! Sarà caduto da qualche parte!"
"Adesso che viene qui metterà tutto sottosopra!"
"Lo dobbiamo trovare al più presto, altrimenti saranno guai! Nostro fratello continuerà a tenerci chiuse qui!"

Tutta la disperazione era nulla di fronte alla soddisfazione che il giardiniere provava nel sentire quelle
discussioni: le tre sorelle erano in preda alla paura. E l'anello lo aveva lui.

Era giunto il momento di rendere pan per focaccia, approfittando della ingenuità delle tre donne che non erano mai uscite nel mondo reale...

Così si presentò dopo qualche ora per chiedere del perchè di quella confusione e venne pertanto a sapere:
"Signurì, nun ve preoccupate, mo cercamme d'o truvà" - disse prontamente, ed iniziò ad abbassarsi a terra
per fare finta di trovarlo. Le donne prontamente gli dettero una mano ed una di queste, Rosina, nel mentre che cercava trovo un pezzetto di pane per terra e lo mise in bocca prontamente.

"Signurì" - approfittò subito il giardiniere - "ma nun è ca ve l'avissana agliuttuta senza ve ne accorgere?"
Le tre donne rimasero interdette.
"E se fosse, come faremmo a capire se lo abbiamo mangiato?"

"Eh già, starà ancora dinto o stommache...o addirittura inta 'a burzetta ca teneite cchiù abbasce..."-rispose il nostro amico indirizzando il discorso in un certo modo.

"Come si potrebbe fare per saperlo? Nostro fratello verrà qui dopodomani!" - si affrettò a dire Rosina.

E qui scatta l'idea geniale: approfittare della ingenuità delle tre donne per rendere la pariglia al conte.

"Nun ve preoccupate: iye so pure piscatore e tenghe na canna ca pò servì a ve truvà l'aniello dint 'a burzetta, si 'o tenite".

Il novello pescatore stava giocando le proprie carte.
"Ed allora cacciate fuori questa canna e vediamo chi di noi tre ha questo anello nella borsa!"

Il nostro amico aveva capito già che poteva spingersi fino in fondo alla vendetta.

Le tre sorelle non mostrarono segni di turbamento, anzi...
"Voglio essere io la prima! Ecco la mia borsetta...fateci entrare la vostra canna" - disse Giovannina.

E così fu. Questo giardinier-pescatore fece quello che doveva fare poi, con fare desolato, disse:

"Ccà nun ce stà niente...! Passamme a sora vosta!"

Ed anche a costei fu esplorata la borsetta nel modo che immaginiamo, ed anche qui nulla fu trovato.
Alla terza ed ultima sorella il giardiniere fece finta di aver trovato l'anello: con una mossa nascosta prese l'anello dalla propria tasca e lo pose a mò di corona sulla sua "canna" ed esclamò: "Oilloche, l'aggia truvate!", e lo mostrò alle presenti.
"Bravo il nostro giardiniere! Domani lo diremo al conte di come ci hai aiutato a ritrovare l'anello", disse
Rosalba, la terza delle sorelle.

"Ti faremo dare una bella ricompensa!" - concluse Rosina.

La vendetta era stata consumata.
Quando venne il conte, e le sue sorelle gli spiegarono in che modo il giardiniere le avesse aiutate a trovare il suo anello, inizialmente andò su tutte le furie ma, considerando che stravedevano per il giardiniere e che mai avrebbero pensato di accasarsi altrove -dilapidando così il tesoro di famiglia per le loro doti- dopo una notte insonne decise di non agire contro il giardiniere defloratore.

Non solo, ma imparò a fare un sorriso amaro quando, affacciandosi dal balcone sentiva la canzone:
"'O conte 'e Matalune ogni tre ne vuleva una!".

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Proverbio: "'Ncoppa 'a faccia d'a terra, tre ccose sò malamente: 'o prevete, 'o cumpare e 'o maletiempe.
Pecchè: 'o prevete vò sapè tutte 'e fatte 'e 'llate e 'e suoie nun 'e fà maie sapè; 'o cumpare è 'o primme a te fà na mala azione; 'o maletiempe quanne meno te lo aspiette te pò arruvinà.

Questo proverbio si pone nella scia del numero 3, numero perfetto per antonomasia, per voler sottolineare che quanto si dice non è contestabile; andiamo con ordine: il ruolo del prete è quello tipico dell'immaginario (e non solo...) popolare dei secoli scorsi. In pratica un nullafacente che, con la scusa di dover servire il Signore e con il privilegio della Confessione, conosceva le storie di tutti ma nessuno era in grado di conoscere la sua.
Di storielle molto simpatiche sui preti ve ne sono a centinaia.
Il compare che, avendo il ruolo di tutore, dovrebbe provvedere alle nostre necessità spirituali e talvolta materiali, approfitta del suo ruolo e non ci pensa neppure un istante a farci una cattiva azione per il proprio tornaconto (ma dobbiamo sempre guardare alla società di qualche secolo fa...).
Per ultimo -e non poteva mancare in un proverbio tipicamente contadino- il maltempo: non avendo nessuno che lo comanda in un senso o in un altro, potrebbe senza saperlo rovinare il raccolto di una annata.


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Filastrocca con riferimento ad Anna Caterina II di Russia (1729-1796).

Preludio: 

A voi donne che c'è l'avete
così grande e profonda
la vostra fede,
fate in modo che anche noi
dietro di voi
possiamo innalzare
le nostre lodi al Signore.
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Uommene 'e stù munne,
uommene 'e chill'atu munne...

...e femmene 'e stù cxxe.
V'aggia fà 'na parlata cu
sette pare 'e cxxe: si 'a vulite
sentere, 'a sentite o si no
iata a 'ffà dinte 'e fxxe delle
Anne Caterine: quanti vvote
v'aggia ditte che 'e cane dint'a cchiesa
nun l'avita purtà! 'E cane ricacane 
e ripisciane, 'e zetelle male patiscene,
'e femmene prene abortiscono.

Pò dicite ca 'o prevete è pazze:
è pazze 'o cxxei!

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FilastroccaBarbarò, barbarò

Barbarò, barbarò
nisciune serpe t'adda muzzecò.


Te l'inciarmo e te l'assicure
tanne te ne addunarraje
quanne t'anna rutte 'o cule!

Questa filastrocca, di cui non se ne trovano -in internet- di pari, ha la forma di una sorta di anatema "rurale":
in testa vi sono due parole che servono di per sè per la rima: nessun serpente ti dovrà mai mordere è una frase che nel contesto dovrebbe significare "non dovrai farti male per caso". Il serpe è un elemento sicuramente presente nel contesto agricolo e certamente i contadini sapevano che c'era il rischio di imbattersi in qualcuno di questi esseri; ovviamente, dalle nostre parti serpenti velenosi non ve ne erano ma...'o muzzeche fa male!
Detto questo, la filastrocca continua con "l'inciarmo e l'assicuro", ovvero "con il sortilegio te lo farò certamente" che te ne accorgerai giusto proprio quando ti avranno rotto il deretano. Quest'ultima metafora è chiara...
Quindi, più del caso (nisciune serpe t'adda muzzeca: un buon augurio che nasconde una punizione più feroce) potrà colpirti la mia maledizione (inciarmo) che sarà palese solo quando non ci sarà più nulla da fare (tanne te ne addunarraje...).

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La Misura (l'ho chiamato io così) è un altro raccontino in stile boccaccesco che raccontava Zi Tatonno.
Non lo raccontava molto spesso ma lo ricordo ancora poichè rientra in quei canoni di storielle antiche dove il "compare" di turno approfitta dell'umile compariello che veniva a chiedergli un consiglio.
Chissà se tale episodio non era alla base del famoso proverbio " 'Ncoppa 'a faccia da 'terra, tre cose so' malamente: 'o prevete, o' cumpare e o' maletiempe!".

Stavolta si va per mare: Zi Tatonno ci racconta quindi di un tale che, dovendo partire per un lungo viaggio
via mare ed avendo una moglie giovane e piacente, chiede al proprio compare cosa fare per assicurarsi che
ella non lo tradisca con qualche altro.

Il compare, che era furbo come al solito, gli propone una tecnica originale...

"A l'urdema notte ca nce rurmite assieme, cumpariè, pigliate nu piezze 'e spaghe e, chianu chianu
allargatece 'e cosce e mesuratacella 'e luonghe, da nu cape a n'ate. Segnate pò cu nu nureche o' punto 'e
mesura. Astipatavelle fino a quanne turnate..."

"Brave cumpare! Me para na bona idea: accussì quanne torne nce ammesura n'ata vota e si nun se trova allora significa ca m'ha fatte 'e ccorne."

Il compare dunque, non appena l'amico compariello partì, non ci mise molto a convincere la moglie di
quest'ultimo a giacere con lui ed insieme passarono molti giorni.

Quando il compariello ritornò dopo qualche mese, la prima cosa che fece fu proprio quella di rimisurare in
quel modo speciale sua moglie e, con enorme soddisfazione, trovò che la misura combaciava con quella che
aveva preso prima di partire: il compare gli aveva dato un ottimo consiglio!

Non passò molto tempo però, che il nostro amico compariello dovette ripartire per un altro dei suoi viaggi
a 'lluonghe e, passando una serata con pochi amici, in un momento di euforia quando gli chiesero se non
avesse paura a lasciar da sola la sua giovane consorte, rispose spiegando appunto "la misura"
consigliatagli dal compare tempo prima.

Forte fu il colpo quando qualcuno gli spiegò che se proprio doveva prendere una misura, doveva prenderla
non di lungo, ma di lato!

Zi Tatonne concludeva sempre facendoci vedere con i gesti come andava presa la misura, non di lungo ma di
lato...ahahahahah...e poi concludeva il racconto dicendo che il compariello, facendo finta di andare via un
giorno prima, ritornò improvvisamente la notte a casa e beccò i due a letto.

Il resto furono mazzate...

Questa storiella certamente è di tradizione orale in quanto la si ritrova - nel meccanismo centrale del racconto, ovvero la misura - nell'opera di Tommaso Costo, "Il fuggilozio". Quest'opera nientedimeno risale al XVI sec. e fa un pò il verso al Decamerone o meglio al "Lo cunto de li cunti" del Basile.
La storiella è alla "Giornata Prima" e s'intitola "Gianni geloso della moglie è fatto da lei per sua colpa cornuto"...



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'A ciuccia 'e Zì Luigge

Adesso è il turno di riportare una storiella - veramente accaduta e raccontatami dal protagonista stesso - che voglio definire come " 'A ciuccia 'e Zì Luigge".
Zi' Luigge Orditura era un lontano parente di mia madre, Enrichetta Porcaro, e cliente piuttosto fisso del Bar Porcaro, specie durante le primissime ore pomeridiane. Fu proprio lui, dunque, a raccontarmi la brevissima storiella:

"Zi Luigge teneva 'na ciuccia dinte a terra soja, quasi vicine a casa soja. Questa ciuccia non era legata in alcun modo e poteva liberamente gironzolare nella proprietà di Zi Luigge, visto che il terreno era scarsamente coltivato.
Ma non quello dei vicini di terra. Ed uno di questi si andò fortemente a lamentare con Zi Luigi proprio del fatto che, essendo l'animale libero, spesso e volentieri andava a mangiare nel territorio altrui.
Il nostro parente, scozzese di indole eheheh, non fu preso alla sprovvista: era proprio per il foraggio che lasciava libera la bestia di andare gironzolando. In tal modo non avrebbe avuto spese di mantenimento...
Ma le lamentele cominciarono ad essere forti, specie da parte di una vicina, che convocò lo zio per trovare una soluzione.
"Zi Luì, mò è tiempe 'e cogliere e stà ciucce spisse vene a magnà dinta 'a terra mia. Se nun facite in mode da fermà, iye chiamme 'e 'gguardie."
"Signò" - rispunnette Zi Luigge - "iye nun tenche poste addò pozze lassà sta ciuccia e vuje 'o 'ssapite: v'a putesse lassà a vuje?"
"Nonzignore: piuttoste prucurateve na fune e l'attaccate vicine 'a piante 'fiche ca tenite.", ribattè la vicina.
"Avite raggione! Mo facce proprie comme avita ditte...".
E così, passato qualche giorno, la ciuccia fu legata a quell'albero e la questione sembrò essersi risolta.
Mi raccontava Zi Luigge che però dopo un paio di giorni, un pomeriggio sentì delle urla provenienti dall'esterno. Era una voce di donna, la vicina d'o Zie.
"Zi Luììììììììì, Zi Luìììììììììììì, stà ciuccia sta 'nata vota dinte 'a terra mia! Ma comme l'avite attaccata!? Iye chiamme 'e gguardie!".
E lui, con molta faccia di bronzo: "Sissignore, nu berite ca sta attaccate: 'a veche iye da 'ccà...".
"Si", rispose la signora, "ma 'a fune l'avita fatta troppa longa però!!".

Mi ricordo ancora di Zie Luigge e del suo volto raggiante di soddisfazione quando mi raccontava questo episodio. La sua arguzia era molto proverbiale in paese, così come il suo modo di giocare con i più giovani parlando "con il fischio". Altri tempi.
Grazie Zio Luigi: 'nce verimme a chill'aut munne...

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